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IN CORRISPONDENZA DI...

Lettere non corrisposte inviate dall’ENIGMATICO SCRITTORE al suo agente (segreto) letterario.

-1-

Caro Winslow,

   questo solo posso dirti: ho messo una croce sul mio primo amore ed un rosario sull’ultimo.
Immagino però che come confessione non possa bastare ad una persona come te che di immaginazione ne ha sempre avuta poca (o nessuna?) quindi anche se non dovrei farlo ti dirò qualcos’altro.
Cosa, però? C’è ancora molto che non sai, ma anche molto che non meriti di sapere… e se cominciassi dall’inizio? Potrei parlarti del giorno in cui è iniziato tutto, anzi, in cui è finito tutto, per poi iniziare di nuovo.
   Tu non c’eri quel giorno; ti andrebbe di vederlo ora? Si, ora che dalle tue parti è la fine di un’altra serata e la pioggia non sta cadendo anche se qualcuno vorrebbe che fosse così, e quel qualcuno sei tu. Aspetti ancora la pioggia… perché? Non hai capito che non tornerà, che devi lasciarla andare? E poi, perché dovresti volerla di nuovo? Perché faccia da sottofondo ad una canzone finita male? Comunque sia, ora ti chiedo di abbandonare questa tua serata all’ombra della notte, di lasciare il tuo presente per il mio passato e di rivolgere la tua attenzione ad un giorno che si trova ancora lì dove l’ho vissuto, al termine di anni di dubbi e incertezze, e che è abitato da una sola persona, io.
   Qui, in questo giorno del passato ancora presente, in un certo momento all’interno di un giorno incerto, finalmente sono stanco di guardare avanti e di trovare solo parole che non ci sono e pagine vuote, per questo decido di smettere di provare a scrivere e per un attimo è vero, ho smesso, non scriverò più, non ci proverò più… poi una sensazione a cui non voglio dare un nome mi spinge invece a guardare indietro e nel farlo mi vedo di nuovo come ero da bambino, e in quel momento ricordo come facevo a quel tempo: scrivevo seguendo non l’ispirazione o i desideri ma solo le parole. Provo a farlo di nuovo, ci riesco, ricomincio a scrivere e da allora non ho più smesso, e anche quando in seguito ho scritto la parola “FINE” questa non ha mai avuto niente a che fare con me, o con la mia vita.
   Si, è iniziato tutto così, ma è fin troppo facile ricordare l’inizio… la fine, piuttosto, quella vera, saprò ricordarla altrettanto bene? E a parte questo, diresti mai che nella frase con la quale ho iniziato questa lettera c’è quasi tutto quello che vale la pena sapere su di me? Si, ti conosco abbastanza da sapere che lo diresti, ma tu non conosci abbastanza me, quindi non sai quello che dirò, il che ci porta a questa mia prima lettera. Già, una lettera… perché scriverla? Perché una certa notte ho sognato di farlo e forse voglio poter dire che almeno uno dei miei sogni si è avverato, quindi eccola qui, sperando che almeno questa volta l’inchiostro non finisca prima del sogno.
   Per cominciare, ti confermo che quanto hai sentito è vero: (NOI), come gruppo, abbiamo deciso di aprirci al mondo, di condividere alcune delle nostre opere con gli “altri” e il qui presente (IO) è stato scelto come portavoce, ambasciatore o qualunque altro termine renda bene l’idea.
So che questa decisione non ti piacerà ma come sempre è troppo tardi per fermarci, soprattutto è troppo tardi per fermare ME, perché come nella migliore tradizione delle missive davvero importanti “quando leggerai questa lettera io sarò già lontano”, anche se non ti sono mai stato davvero vicino.
Si, me ne sono andato, sono tornato a Bordighera e questo ti sorprenderà ancora di più, lo so. Perché tutto questo? Per quanto riguarda la nostra decisione “collettiva” non mi è possibile spiegartela visto che amiamo le cose inspiegabili, quindi per il momento non lo sappiamo nemmeno noi; si, posso provare a spiegarti le ragioni della MIA decisione e se tu proverai anche solo a fare finta di capire (lo sapevi fare bene in passato) andrà tutto per il meglio, prima però devo raccontarti un’altra cosa che non sai o che hai dimenticato e che è accaduta l’anno scorso, quando ancora non stava piovendo, e anche se riguarda il passato ne scriverò ancora una volta al presente, un po' perché come sai è così che preferisco fare ma soprattutto perché come sempre ho bisogno tu sia lì ADESSO, che tu veda ORA quello che ho visto io, altrimenti non riuscirai a sentire quanto fosse buio, e non riuscirai a capire.
   Allora, è sera, anzi no, è notte (suona meglio) e io sono a casa della mia nonna paterna, seduto al tavolo nella cucina, è molto tardi ma non importa poiché da tempo al sonno preferisco la scrittura e ai sogni qualcosa che rimanga e che non sia ogni volta da interpretare o da voler dimenticare. Quanto a quello che sto scrivendo… si, sono finalmente le parole giuste ma non riesco a leggerle perché il mio modo di vedere le cose è ancora quello sbagliato.  All’improvviso smetto di scrivere, anche se questa volta non per sempre, perché sento di non essere più da solo, c’è qualcun altro qui da qualche parte; mi alzo, apro la porta e vedo la stessa cosa che si trova in altre case abbandonate come questa, un corridoio che precipita nel buio come un breve abisso orizzontale, sul fondo del quale si è infranta una singola luce che sembra provenire da dietro il vetro della porta della sala.
   C’è qualcuno lì. Dovrei avere paura ma non riesco a trovarla in mezzo a tutto questo silenzio, così mi dirigo verso la sala, apro la porta e trovo il televisore accesso e una persona seduta sulla poltrona…
… apro gli occhi come se fosse finito un sogno, del resto la scritta “FINE” sullo schermo della televisione lo conferma, ed è tardi ormai per sapere come è andata a finire quella storia, troppo tardi anche per provare a sognare un altro film; avrei fatto meglio a rimanere in cucina a provare a scrivere un po' invece di venire qui a cercare delle voci diverse dalla mia. A questo punto tanto vale andare a letto, e quanto sarebbe bello se fossi già lì, convinto di essere al sicuro…
…e oltre il buio che separa una porta da un’altra, nella camera occupata da un letto chiamato matrimoniale anche se nessun matrimonio è mai stato celebrato su di esso, sotto il manto dell’inverno che assomiglia ad una coperta mi giro dall’altra parte e mi dico che ho fatto bene a mettermi a letto invece di aspettare in cucina l’arrivo delle ultime parole, famose o sconosciute, o restare in sala davanti ad un televisore che a quest’ora sa raccontare solo storie che non arriveranno mai al mattino e che parlano di persone che potranno essere salvate solo cambiando vita, o canale…
   … e a questo punto apro gli occhi perché sento la necessità di svegliarmi come da un qualche sogno del quale non mi è rimasta nessuna immagine, solo il vago ricordo di essermi trovato in un posto dove non c’era alcun bisogno di me eppure nessuno voleva lasciarmi andare e avverto prima la sensazione di essere nel momento sbagliato della notte, in cui è meglio essere addormentati, poi quella di essere la persona sbagliata, ed è un vuoto questo dentro il quale non si può far altro che sprofondare; provo a tenermi afferrando i bordi del materasso ma il mio corpo e la mia volontà sono quelli di un bambino e per questo so che non ci riuscirò. Allora penso: “potrei abbracciarla, stringermi a lei, sarebbe una buona ragione per restare qui”, ma ho paura che provare a farlo vorrà dire scoprire che lei è già andata via o che le mie braccia non sono abbastanza reali per trovare il suo corpo senza negare l’esistenza del mio… se non lo faccio però finirò per cadere in quella profondità così diversa da quella del sonno, oltre il pavimento, al di là del quale si trova solo un soffitto messo lì dagli inquilini del piano di sotto per fermare i sogni e non farli volare via.
Poi però ci riesco, allungo un braccio verso l’altra parte del letto e lei è lì, è solo la sua forma disegnata sotto le lenzuola ma va bene così, e adesso sto osservando me stesso dall’esterno, mi vedo pensare cose come “vorrei restare qui con lei per sempre, vorrei che questa notte durasse tutta la vita”, allora mi dico: “Si, stringila a te, più forte, anche se farà male, perché non hai ancora capito… questa notte è tutta la vita. Non svegliarti.” Invece l’ho fatto e non ne sono pentito, del resto dovevo pur tornare prima o poi, il problema casomai è un altro… Lei.
    Lei è ancora qui, nei miei pensieri e in quello che rimane quando si spengono e non resta che il silenzio. Com’è possibile che sia ancora qui se è andata via cinque anni fa? Ecco uno dei motivi che mi hanno spinto a partire, devo tornare là dove credevo fosse tutto finito perché adesso più che mai mi è chiaro che non è così. Devo tornare a Bordighera per capire se è lei che non se ne è andata o se sono io a non averlo fatto. L’altro motivo è che non posso continuare a pensare ai ricordi che ho abbandonato in quella città; visto che continuano a tornare non invitati tanto vale che li vada a prendere io. E poi…
   Si, in effetti c’è ancora un altro motivo, il più strano dei tre, ed ha a che fare con il mio vicino.
“Ma come, il tuo vicino?” – mi sembra di sentirti dire (non è che sei nascosto qui intorno, vero?)
“Uno degli estranei?” Ebbene sì, proprio uno di loro! Questo tipo però ha una storia parecchio interessante, tanto da sembrare inventata da me. Un tempo era solo un astronomo di fama locale, ma la sua vita è cambiata dopo aver partecipato ad un convegno organizzato da alcuni suoi simili per cercare di capire perché parte della luna a volte spariva nel nulla. C’era chi aveva ipotizzato fosse a causa di una qualche ombra che le cadeva periodicamente sopra fino a coprirne una parte, a volte quasi tutta, e c’erano altre teorie rimaste più o meno in ombra, ma il mio vicino aveva svolto ricerche e studi molto più approfonditi per conto suo aiutato dalla sua preziosa assistente, l’insonnia, ed era arrivato infine ad una scoperta che aveva deciso di rivelare proprio in quella occasione: la luna spariva per colpa di alcuni senzatetto che  essendo come tutti i poveri più vicini al cielo riuscivano a raggiungerla e a cibarsene un pezzo alla volta, lasciandone abbastanza perché potesse ricrescere durante il giorno. Inizialmente scettici, i suoi colleghi dopo attenti esperimenti avevano capito che egli aveva ragione e per onorarlo gli avevano conferito l’ambita grande “G” simbolo di grandezza, facendo così dell’astronomo il primo Gastronomo della storia. In seguito, egli avrebbe celebrato questo avvenimento creando la prima “Luna di Miele” che sarebbe poi stata usata come dolce al matrimonio del suo unico nemico, il quale come testimoni avrebbe avuto solo alcuni senzatetto conosciuti tempo prima in una notte senza luna. Ecco, questa è parte della sua storia, il resto lo puoi immaginare facilmente, quello che qui mi importa dirti piuttosto è che alcuni giorni fa l’ho sentito parlare con sé stesso oltre la sottile quarta parete che separa le nostre vite, ho colto parte della conversazione e stando ad una sua teoria due rette parallele non si incontrerebbero mai se non in un qualche punto lontanissimo.  
    A questo punto (molto più vicino di quello) ti starai chiedendo: “perché mi sta raccontando queste cose?” Forse perché so che non le racconterai a nessuno, visto che non hai nessuno a cui raccontare proprio nulla.
Ecco, è crudele ricordarti questo? Giusto, forse? Oppure è solo letteratura? O arte? Quale che sia la verità, sapendo di poter contare sul tuo silenzio e su quello degli altri, posso anche dirti il resto.
Come ti ho scritto più sopra, quando leggerai questa lettera io sarò già in viaggio, chissà magari sarò anche arrivato visto che sono partito molto presto con il favore delle tenebre (alle quali ora devo un favore) e con il silenzio delle meridiane, prima di cambiare idea (o che le idee potessero cambiare me), passeggero sull’ultimo treno, che è poi anche il primo se lo si aspetta dalla parte opposta.
Perché un viaggio in treno, che oltretutto ho già fatto nel mio secondo romanzo ancora inedito?
Perché il terzo motivo che mi ha convinto a partire è questo: ho voluto verificare la teoria del mio vicino e ho scoperto che ha ragione, due rette parallele, così come due rotaie, non si incontrano mai se non in un unico punto ancora molto lontano, e indovina un po'?
Quel punto non esiste più.
Ci hanno costruito sopra una città chiamata Bordighera, molti anni e pagine fa.
Per ora può bastare così, ti scriverò dell’altro non appena mi ricorderò di nuovo di te.

Distinti saluti,

(IO).

-2-

Caro Winslow,

è passato un po' di tempo dalla mia ultima lettera, e indovina un po'? Non era l’ultima, era la prima.

Giunto a questo punto sento però il bisogno di raccontarti quello che è successo dopo, quando ho lasciato quella che per un numero imprecisato di anni è stata la mia casa e ho iniziato il viaggio verso la città del passato, quella che secondo gli esperti non può più essere ritrovata e che secondo i ricordi è invece a pochi passi di distanza. Come ti ho detto nella scorsa lettera, appena completati gli ultimi riti della fine del giorno me ne sono andato… ecco, riesci a vedermi anche se è buio? Sono quello che si muove senza fretta, con calma, perché ormai è stato tutto deciso e i dubbi appartengono ad un altro che non sono più io, che non è riuscito a decidere nulla e che forse è ancora chiuso in casa, incerto anche sulla prossima parola da scrivere; magari potresti fare un salto per vedere se è ancora lì, potreste farvi compagnia l’un l’altro, forse anche riconoscervi come simili, finalmente.

Sono in strada, non c’è nessuno a vedermi partire ed è vero che nessuno sapeva che me ne sarei andato ma avrebbero potuto anche immaginarlo, no? Credimi, è questa la causa della solitudine dei viaggiatori, la mancanza di immaginazione. Detto questo, mi incammino verso la stazione passo dopo passo finché non me la trovo davanti come se fosse sempre stata lì e subito penso: “Come hanno fatto a non capire che ci voleva una piazza qui, che ci volevano delle palme, un orologio appeso abbastanza in alto da essere irraggiungibile e il suono delle onde del mare appena oltre quello delle lancette?” A Bordighera lo hanno capito, ecco il perché di tutte quelle partenze e di quei treni che vanno nella giusta direzione ma non tornano mai.

Mi dirigo verso l’ingresso della stazione ed ecco che poco lontano, su una panchina, vedo un uomo, un uomo reale, non una di quelle comparse che si vedono nei film e capisco subito che ha qualcosa da dire, ed è così, infatti si gira verso di me e dice: “No, non sto per partire, anzi sono appena arrivato, il fatto è che ho paura e credevo che arrivare qui sarebbe stata la parte più difficile, invece è adesso, è il tratto di strada che da qui porta a domani. Io non lo sapevo che sarebbe stato così, davvero. Perché ho deciso di farlo, di venire in una città dove non conosco nessuno? Io stavo bene a casa mia, non ho mai sognato di andare via, solo di tornare… sempre di tornare.”

Ho pensato: “pover’uomo, non vorrei essere nei suoi panni”, ma in effetti mi ci sono trovato tempo fa, quindi so per esperienza che alla fine andrà tutto bene, ma non glielo dico per non rovinargli la sorpresa.

Non faccio in tempo ad arrivare dalle parti dei binari che un altro personaggio compare dal nulla come di solito non fanno nemmeno nelle storie che scrivo, un altro uomo, forse ancora giovane, seduto anch’egli su di una panchina. Mi vede, mi sorride, io ricambio il sorriso senza problemi (posso permettermelo visto che per il viaggio mi sono portato dietro diversi sorrisi di ricambio) e già che ci sono gli chiedo se è di partenza anche lui come me.

“No, io non vado da nessuna parte, mai. Non posso farlo. Vuole sapere perché?” Annuisco, del resto il treno è in ritardo di qualche minuto, forse a causa di tutte queste storie e racconti in attesa che devono essere smistati, tanto vale ascoltarne uno, chissà potrebbe rendere il traffico più scorrevole.

“Vede”- inizia a dire, e io a vedere- “da piccolo avevo una grande passione per i treni, proprio come mio padre e ad un certo punto, chissà perché, ho preso l’abitudine di disegnare con il gesso un binario sul selciato, e ogni giorno che passava non passava alcun treno su di esso ma io non ci facevo troppo caso e continuavo a disegnare, aggiungendo rotaie su rotaie, sempre più distanti, e qualcuno mi ha anche chiesto: “cosa te ne fai di un binario così lungo, dov’è che devi andare?” Io non sapevo cosa rispondere anche perché non ci avevo mai pensato, e anche quando l’ho fatto non sono riuscito a trovare una risposta che andasse bene, a me o a loro… andare via? E dove? Perché?

Soprattutto… via da chi? O verso chi? Comunque sia, ho continuato a disegnare il mio binario che non aveva ancora una destinazione finché un giorno… un giorno non l’ho più trovato.

Era scomparso, come se non ci fosse mai stato, o non ci fossi mai stato io.

Mi è stato detto che era stata la pioggia a cancellarlo, che era arrivata da lontano con un treno che nessuno aspettava e che dopo il suo passaggio tutto era più pulito, più nuovo, e che le mie rotaie erano state portate via perché non c’era posto per loro in quel nuovo mondo. Pieno di quel senso di vuoto, ho cominciato a camminare finché non sono arrivato alla fine di quel dispiacere che per una qualche coincidenza corrispondeva anche alla fine di un binario tra i tanti della stazione; quello però era diverso, era un binario deceduto anni prima in circostanze mai del tutto chiarite, le rotaie arrivavano fino ad un certo punto e poi semplicemente finivano senza alcuna spiegazione lasciando le persone a guardare una destinazione fatta di nulla. Allora ho pensato che forse avrei potuto continuare io quel discorso interrotto e con il mio gesso ho tracciato il percorso che non si vedeva più bene, ho aggiunto altre rotaie e ha funzionato, ma ben presto ho capito che da quel giorno non mi sarei mai potuto allontanare da questa città, non sarei mai potuto andare via, perché se avesse piovuto ancora chi avrebbe pensato a quel binario, chi lo avrebbe disegnato di nuovo?

Chi ci avrebbe creduto?” Poi non dice più niente, perché non c’è più niente da dire.

Si, come storia non mi è dispiaciuta, per questo scelgo di non aggiungere ad essa altre parole e anche io non dico nulla, limitandomi ad annuire e ad andarmene un po' più in là, dove il buio è solo quello della notte e non quello che certe persone si portano dietro come bagaglio, e dopo qualche attimo di silenzio ecco che il suono sempre più vicino di passi solitari indica che il capostazione sta arrivando. Non appena mi vede mi riconosce per quello che sono, uno sconosciuto in partenza, e mi saluta dicendomi:

“Buonasera, e benvenuto. Lo sa, io ero qui quando hanno inaugurato la stazione ed è arrivato il primo treno, quello che ha portato la gente nuova che non si era mai vista né immaginata prima e che parlava una lingua che poi avremmo parlato tutti. I loro sorrisi erano stampati su biglietti da visita e i loro vestiti erano strani da guardare, come se fossero ancora sotto la superficie della vetrina di un qualche negozio di abbigliamento; portavano con loro come doni i colori che poi avremmo visto alla tv, ed una musica nuova, che raccontava di quanto diversi fossero i figli rispetto ai genitori e di come questo fosse necessario per capirla, e per capire tante altre cose; portavano il cinema di domani, film i cui attori non si guardavano tra di loro ma guardavano oltre la cinepresa, verso il pubblico e lo facevano parlando delle cose che gli spettatori avevano sempre saputo ma che avevano paura di ricordare, e per questo motivo uscivano durante l’intervallo tra il primo ed il secondo tempo della propria vita, prima di vederne il finale.

Io ho sentito tutto questo e allora… si, ho avuto paura, anche perché nessuno mi guardava o prestava attenzione a me, era come se non esistessi o fossi finalmente riuscito a diventare invisibile ma non era affatto come avevo sempre sognato, era qualcos’altro, qualcosa cui non sapevo ancora dare un nome ma che un nome lo aveva, anche se lo avrei imparato solo qualche anno dopo, in quel momento sapevo solo di essere solo e mi sono guardato intorno, e per qualche motivo i miei occhi hanno trovato la mia maestra di allora, invitata in quel luogo per quella occasione così importante come del resto tante altre autorità della città. Le ho detto: “Maestra, ho paura” e lei, con quella sua voce da adulta che aveva scelto di non credere che gli altri si potessero innamorare, mi ha risposto: “Shh! Non vedi che siamo tutti in punizione? Perché continui a mancarmi di rispetto in questo modo? Non hai ancora capito che non si può parlare del silenzio?” E al di sopra di tutto quello il cielo era una lavagna nera senza alcuna scritta né indicazione e si rifletteva nei suoi occhi che di notte si chiudevano in fretta, senza nemmeno aspettare i sogni.

Subito dopo, ricordo di avere distolto lo sguardo in cerca di qualcuno che potesse portarmi via da lì, quello che ho trovato è stata la facciata di un piccolo albergo poco distante dalla stazione, una delle finestre era aperta e racchiusa in quella cornice c’era una donna, e a fare da sfondo ai colori che indossava dalla nascita c’era un passato che non avrebbe mai potuto essere contenuto in quell’istante, o in quel ricordo; era di profilo, di lei non avrei mai saputo niente più di questo, poi ha sorriso alla persona con cui stava parlando dicendo qualcosa che non sono riuscito a capire, che non capirò mai, ed è sparita dalla mia vista, e dalla mia vita. Stavo ancora pensando a lei, la stavo ancora aspettando, quando è arrivato il suono di quelle persiane che si chiudevano, lasciandomi là fuori senza più una ragione per restare bambino, ed era stato qualcuno a chiuderle oppure era stata la premura del vento che aveva deciso di proteggere un momento che non si sarebbe più ripetuto, poiché la nuova gente avrebbe presto costruito nuovi alberghi, altri posti dove nascondersi o andare ad aspettare il futuro, e alcuni di essi sarebbero sorti lontani dal mare, anche se all’epoca non sembrava possibile nemmeno pensarlo.

A quel punto davvero non è rimasta che la paura e ho pensato: “non deve arrivare, il treno che porta le persone nuove non deve arrivare, devo fermarlo!” … e senza nemmeno sapere come, l’ho fatto.

Ho fermato il treno. Mio padre, che era ancora lì, che era lì da sempre, ha visto quello che avevo fatto come lo avevano visto anche tutti gli altri, mi ha guardato e mi ha detto: “Ora ricordo quale futuro ti aspetta! Ora so chi sei, perché so chi sarai!” E aveva ragione: sono diventato l’uomo che ferma i treni, che li aiuta a capire che un viaggio può anche finire, e mi piace farlo, mi piace essere qui, restare qui.

Si, fermo i treni e le persone in arrivo, ma vuole sapere una cosa? Non sono mai riuscito a fermare quelle che se ne vanno, nemmeno quando avrei dovuto farlo, e a volte la notte mentre voi tutti dormite questi ricordi ritornano alla mente, ma poi anche loro se ne vanno, come se fossero attesi altrove.”

Quindi, un ultimo saluto da parte sua: “Faccia buon viaggio e si ricordi che non serve che lei si ricordi noi, noi siamo qui, non andiamo da nessuna parte, e non si preoccupi, non la saluterò agitando un fazzoletto bianco, del resto la mia resa è già fin troppo ovvia, non lo farò soprattutto perché la tristezza non si addice ad un capostazione.

Non lo dimentichi mai.”

Ed è proprio quello che so di dover fare e che farò, poi non c’è tempo di pensare ad altro perché il treno arriva ed io sono pronto ad andare, e mentre il viaggio inizia sorrido seduto al mio posto dall’altra parte del finestrino perché ora conosco la ragione per cui in questa città non piove mai, ed è perché c’è chi sta attento a queste cose in modo che la pioggia non cancelli l’unica via che porta da un’altra parte.

Per ora è tutto, ti scriverò dell’altro non appena sarò arrivato in fondo a questo viaggio su rotaie di gesso.

Saluti,

(IO).

-3-

Caro Winslow,

è in momenti come questo che mi rendo conto che certi momenti non sono fatti per essere vissuti, ma solo attraversati; si coglie quello che si riesce a vedere dal finestrino, di sfuggita, e di questo sono fatti i ricordi, tutto il resto è paesaggio. Ora, dove ero rimasto, non tanto con la mia vita quanto piuttosto con questo racconto? Mi sa nello stesso punto per entrambe, la partenza, vero? Si, nella scorsa lettera ti ho parlato di quel momento, in questa mia lettera (che resterà mia anche quando sarà arrivata tra le tue mani, sia chiaro) devo quindi parlarti del viaggio e di quello che è accaduto mentre lo stavo facendo e altrove tutto restava immobile in attesa della vita.
Per prima cosa, due cose. Della prima mi capita di essere testimone quando il treno arriva in prossimità di una stazione ed inizia a rallentare per poi fermarsi del tutto, non so se ti è mai successo ma è proprio in questi momenti che capita di fare incontri imprevisti ed è esattamente quello che è successo a me. Dunque, il treno arriva in questa stazione, talmente piccola e monotona da essere anonima pur avendo un nome ed è qui che noto un uomo che cammina sulla banchina del binario, forse sceso da un treno precedente, forse da un’esistenza precedente, sul viso i ricordi di un matrimonio fatto di stanze troppo grandi per riparare dal freddo di quegli inverni e di serate passate davanti alla televisione con il volume della conversazione ridotto a zero, un uomo insomma che porta su di sé non tanto i segni di una sconfitta quanto quelli dell’assenza di una qualunque lotta. L’uomo è soprattutto un padre, e dietro di lui corrono allegre due bambine dall’aspetto banale, leggermente in sovrappeso e appesantite ancor di più dalle proprie ombre che le seguono per una qualche forma di pietà, non certo per fedeltà o amicizia. Come ho detto, sono o sembrano felici, ma credo sia solo perché non hanno ancora incontrato i loro principi azzurri, cui loro stesse daranno l’investitura tra alcuni anni, e dai quali riceveranno in cambio la verità sulla loro mediocrità, sulla loro mancanza di bellezza e sul perché l’amore non farà mai loro visita, in nessuna stagione. Provo ad immaginare come sarà la loro vita e ci riesco, ma non posso parlartene, mi dispiace, perché è una cosa che riguarda solo loro e me.
La seconda cosa accade in un’altra stazione, più o meno a metà del mattino, se non del viaggio, una di quelle stazioni dove commercianti ambulanti vendono souvenirs che raccontano di posti dove le persone di solito non sono mai state ma che riescono lo stesso a regalare loro nostalgia, ed è qui che assisto ad una scena che di solito si vede più che altro nei film, o almeno in quelli che guardano gli altri, non certo io: due adulti affacciati al finestrino, a due scompartimenti di distanza da me, un uomo e una donna che parlano con un bambino sugli otto, nove anni rimasto giù dal treno. Non sono abbastanza vicino per sentire quello che si stanno dicendo ma si tratta chiaramente di un addio, lo si capisce da come la gente si tiene in disparte, a rispettosa distanza, lasciando loro tutto lo spazio di cui hanno bisogno per allontanarsi, per lasciarsi, dalle troppe volte in cui i due adulti annuiscono come a voler dare più forza alle loro bugie ( che devono essere state più o meno queste: “Si, certo che torneremo, vedrai, non sarà per sempre, torneremo, davvero”) e soprattutto dalle ombre che hanno iniziato a calare sugli occhi del bambino, quelle che anticipano la notte che verrà, la prima che passerà da solo e poi tutte quelle a seguire, in cui nonostante la paura si tratterrà dal chiamare “mamma” o “papà” per la ben più grande paura che sia un estraneo a rispondere dal profondo del silenzio di quella casa.
Questo, però, è quanto finora è accaduto all’esterno… ma dentro, dal mio punto di vista?
Anche questa volta capitano alcuni incontri degni di nota, anche se non ho ancora deciso quale delle sette disponibili, e il primo avviene quando nello scompartimento entra un soldato reduce da un difficile fine settimana, e quello cui ha assistito deve essere stato davvero terribile poiché si siede senza una parola né il cenno di un saluto vicino alla porta, come per avere a portata di mano una possibile via di fuga, e resta lì fermo a testa bassa e lo sguardo ancora più in giù, immobile come la statua che non gli dedicheranno mai e che comunque non gli avrebbe assomigliato. Poco dopo, entra quello che ha tutta l’aria di essere un religioso, forse addirittura un prete, anche lui sembra essere un reduce anche se non riesco a capire esattamente da cosa, però quando entra riesce almeno a sorridere come saluto, a fare un cenno con la testa nonché un gesto che può essere tanto una benedizione quanto un saluto ad un amico lontano che da troppo tempo non si fa sentire, né risponde alle preghiere; va a sedersi vicino al finestrino, guarda fuori come in cerca di un’altra via di fuga, e tra lui ed il soldato c’è uno spazio che sembra vuoto ma in realtà quella distanza è occupata dal giudizio che li attende, e che entrambi attendono.
Ed eccoli qui, un soldato ed un prete o soldato di Dio come direbbe qualcuno, tutti e due impegnati a combattere una qualche loro guerra, ed è difficile guardandoli riuscire a capire chi dei due abbia vinto o perso di più. Il primo a parlare, forse a sé stesso, forse ad una qualche persona disposta ad ascoltare che non credo si trovi tra noi è il soldato, che dice: “Non sanno ancora che sono tornato. Si, sono in licenza (licenza poetica direbbe un mio amico, uno che passava le serate a scrivere battute senza esserne capace, ma che in compenso sapeva ridere delle battute scadenti degli altri) ma non ho detto niente a nessuno, ho voluto fare una sorpresa… manco da così tanto, anni mi sembra, che ormai si saranno dimenticati di me; mi è stato detto che hanno cambiato anche casa per poter dimenticare più in fretta, che si sono rifatti una vita, che hanno un altro figlio, un altro futuro, del quale non faccio più parte. Eppure, eccomi qui.
Davvero, si immagina che sorpresa? A quest’ora poi dormiranno tutti, convinti che non manchi nessuno, che ogni persona sia al suo posto nascosta sotto coperte pesanti, quelle che ricordano l’infanzia, ogni cosa immersa in un ordine nato in mia assenza, che non ha bisogno di me, ma quando sarò di nuovo tra loro questo non importerà più, ne sono sicuro. Quanto a me, ho vissuto per anni sotto un cielo che non assomigliava ai miei ricordi, tra sconosciuti che avevano l’ordine di far finta di essere miei amici… sarà bello tornare finalmente a dormire tra persone innocenti.”
Una breve pausa, poi dice ancora: “Sono partito per imparare a camminare da solo, invece ho imparato solamente a stare seduto, in attesa.”
Il prete invece, o una più alta autorità, per tramite della sua voce dice: “Ho camminato per molto tempo in una valle che mi era stato detto non sarebbe stata vuota a lungo perché presto avrei infine incontrato i miei fratelli, che erano solo in ritardo ma che poi sarebbero arrivati. Va’, mi è stato detto, essi avranno bisogno di una guida, va’ e non tardare, o si perderanno senza di te… e ora temo di essere io quello che si è perso. Non ho trovato nessuno, neanche me stesso e intanto la notte si è fatta mattino, un giorno nuovo, senza che per questo io sia più saggio o più meritevole di perdono. Si, li ho abbandonati senza nemmeno averli mai incontrati, e se il cielo quest’oggi è pieno di nuvole è perché oltre quelle coltri si decide la punizione per questa mia colpa. E pensare che da piccolo credevo di avere capito il grande mistero, quando per affrontare una notte di dubbi e paure, nate dall’essermi guardato dentro senza riuscire a riconoscermi, mi ero affidato alla preghiera; con quanta forza allora si erano strette tra di loro le mie mani, unite in quella preghiera da Dio così che nessun uomo potesse osare dividerle, e ripetendo le parole che il Padre aveva insegnato a mio padre che a sua volta le aveva donate a me come ultimo lascito avevo trascorso una notte tanto lunga da durare un’infanzia intera. Il mattino successivo credevo come mai avevo fatto prima nella mia vita, o così credevo… ora so che mi sbagliavo, che quella che avevo creduto forza era in realtà il riflesso della forza di qualcun altro, e quando per la prima volta mi è stato chiesto di darla ad altri, di aiutare altre persone ad arrivare dall’altra parte della notte, ecco che non le ho trovate, ecco che le ho tradite e abbandonate, perdendomi una volta di più; ecco che ho fallito, e se mi è rimasta un’ultima preghiera è rivolta a voi… vi prego di non giudicarmi, ci penseranno i miei fratelli e le mie sorelle, e per ultima mia madre, riprendendosi il nome che mi ha dato quando mi ha avuto tra le braccia per la prima volta e guardandomi ha creduto di capire chi fossi. La verità è che la Sua vicinanza dovrebbe bastarmi, Lui dovrebbe bastarmi, ma a volte è come se non ci fosse, è come se non ci fossero più neanche gli altri, e in quei momenti il silenzio non è riflessione né preghiera, è solo un momento troppo breve dentro una vita troppo lunga.”
Con queste ultime parole anche il racconto del sacerdote è terminato, e devo ammettere che mi aspettavo qualcosa di più; alla fine, in entrambi i casi non si trattava che di una storia come tante che oltretutto credo di avere già sentito prima, quindi decido di evitare possibili altre storie e chiudo gli occhi per far capire ai miei due ospiti che ora sono io ad aver bisogno di una tregua, di un periodo di pace per così dire, e che non possono seguirmi là dove sto per andare.
Funziona, ed il sonno mi coglie preparato, in pochi attimi mi trovo in una piacevole assenza di sogni che dura abbastanza poiché quando riapro gli occhi il soldato e suo fratello non ci sono più, mi hanno abbandonato entrambi. Sposto subito lo sguardo fuori dal finestrino, verso quel mondo che dicono non rallenti mai, invece lo fa eccome ogni volta che si sta per arrivare ad una nuova stazione, e pochi attimi dopo la mia attenzione è catturata da una giovane ragazza che dal suo balcone distante da me una vita intera saluta il treno e tutti i suoi passeggeri di passaggio. “Perché hai dovuto farlo?” -le chiedo- “Perché hai dovuto farti notare? Ora sei nella mia memoria, ci sarai per sempre, potrò dimenticarmi di qualunque particolare di questo viaggio ma non di te, e non saprò mai nemmeno come ti chiami… a meno che non sia io ad inventare un nome per te.” Visto che al momento non ho altro per occupare il tempo decido di farlo, ed è un bel nome, adatto ad una persona in lontananza che non può avvicinarsi o non sa come farlo, uno di quei nomi che non si dimenticano nemmeno quando l’altra persona si è ormai dimenticata di te. Fatto questo, torno a chiudere gli occhi ma questa volta il bisogno di nascondermi non c’entra, ho solo voglia di pensare senza farmi distrarre troppo dalla realtà, e ad un certo punto iniziano anche a venirmi in testa pensieri adatti a diventare possibili testi di canzoni, quelli che scrivevo anni fa e che tu conosceresti se avessi già letto il mio secondo romanzo, quello che si ostina a restare inedito… ma te ne parlerò più avanti, anche perché la fine del viaggio si avvicina.
Quando riapro gli occhi fuori dal finestrino è completamente buio e subito naturalmente penso ad una galleria, ma passano i secondi, i minuti e il buio continua senza che vi sia alcuna luce a definirne i contorni, come se non fosse solo notte, ma molto più tardi. “Non può essere, non posso aver dormito un giorno intero” penso, eppure per un attimo sembra possibile, poi la porta dello scompartimento si apre ed entra un impiegato delle ferrovie addetto alla rimozione delle possibilità e al fornire certezze e risposte ai passeggeri, il quale accorgendosi della mia confusione dice: “Va tutto bene? Se ha bisogno di qualcosa…” Indico con un cenno della testa il finestrino e poi gli chiedo: “Ma dove siamo qui? Non si vede nulla. Perché è così buio?” L’uomo, sorridendo come un tempo era solito fare a suo figlio, dice: “Siamo fermi dentro una galleria che ha le luci spente… no, non è successo niente di grave, è solo l’anniversario della scomparsa dell’uomo che ha inventato le gallerie e che ci ha permesso di arrivare fin qui, così ci siamo fermati per rendergli omaggio.” Annuisco e faccio per mostrargli il biglietto che senz’altro vorrà vedere, ma lui mi ferma con un gesto della mano, dicendo: “No, non serve. Per celebrare questa occasione oggi possiamo viaggiare tutti senza dover essere controllati. Per quanto riguarda la sosta poi, non si preoccupi, non durerà ancora molto. Buon proseguimento di viaggio” e un attimo dopo se ne è andato.
Aveva ragione, il treno riparte poco dopo e in neanche mezzora è finalmente in dirittura d’arrivo alla stazione di Bordighera. Ci siamo, sono arrivato, sono di nuovo qui, ed è stato così facile, come una cosa che avrei potuto fare in qualsiasi momento ma che per qualche ragione ha dovuto attendere quello giusto. Mi alzo, e mentre esco dallo scompartimento incrocio la persona che sta entrando e che va a sedersi proprio davanti a quello che fino a poco fa è stato il mio posto; è una donna, e se fossi rimasto avrei proseguito il viaggio illudendomi di poterla conoscere e forse, chissà… ma no, non sarebbe comunque successo nulla, è vero che ha un volto familiare ma gli occhi sono quelli di una sconosciuta e io di loro non mi fido.
Chiudo qui questa lettera, la prossima volta ti parlerò forse della città e di come mi ha trovato cambiato.

Saluti,

(IO).

-4-

Caro Winslow,

dicono che ogni viaggio abbia una fine, compreso quello della vita…

…ma se uno decide di scendere prima?

Ora non farti venire strane idee, per quanto mi riguarda ho intenzione di arrivare fino all’ultima fermata e forse di non scendere nemmeno in quel caso, è solo una cosa che mi è venuta in mente ora che il mio viaggio di ritorno a Bordighera si è concluso. Devo però ammettere che non assomiglia molto ad uno dei pensieri che ho di solito e non vorrei che appartenesse a qualcuno che magari lo ha perso per colpa del vento e non ha idea che si sia impigliato tra i miei. Tu che dici di conoscere tanta gente oltre a me -ma chissà perché quando lo dici con te ci sono sempre solo io e nessun altro- vedi se tra le tue conoscenze c’è qualcuno a cui manca un pensiero simile a quello e poi stagli alla larga, di gente simile non ci si può fidare.

Ti scrivo dal bar della stazione di Bordighera e la città è così vicina ormai, devo solo uscire da qui e sarò tornato davvero, mancano pochi passi… eppure non posso andare perché manca ancora qualcosa, il problema è che non so cosa sia e finché non lo avrò capito non potrò entrare in città, non sarebbe bello presentarsi a mani vuote. Quindi aspetto e come al solito mentre lo faccio mi guardo intorno; non c’è molta gente qui a quest’ora, pochi i tavolini occupati, qualche coppia c’è ancora nonostante quello che dicono le statistiche ma più che altro si tratta di singoli, per la maggior parte uomini - in un angolo più lontano però c’è anche una donna- che siedono in silenzio aspettando qualcuno che non arriverà mai ma che credono sia solo in ritardo. Ognuna di queste persone ha una storia, certo, ma non credo riuscirò ad ascoltarne nemmeno una, dopotutto qui non siamo in treno dove le persone che si incontrano sentono il bisogno di giustificare la loro presenza o la loro fuga, qui è diverso, chi è appena arrivato ha speso quasi tutto per pagarsi il viaggio quindi la sua storia è tutto quello che gli rimane e non la regalerà certo al primo arrivato o a me, chi invece deve ancora partire spera di iniziare una nuova vita da zero e del suo passato si è già sbarazzato vendendolo a chissà quale negozio di ricordi.

Sto riflettendo su queste cose quando il proprietario del bar si avvicina e mi chiede, con la voce incolore che hanno spesso i personaggi secondari: “Desidera qualcosa?” e all’improvviso mi rendo conto che sono anni che non assaggio più una delle più famose e apprezzate specialità locali, così senza stare a pensarci troppo su gli dico: “Si, un po' di silenzio, grazie.” L’uomo annuisce, si allontana e poco dopo torna dicendo: “Ecco qui. Se posso permettermi… lei è appena tornato, vero? Lo sapevo. Eh, anni di esperienza, ormai ho un occhio per queste cose, del resto per la vista basta l’altro, e per celebrare l’occasione ho pensato di offrile -no no, offre la casa, ci mancherebbe- un silenzio speciale, quello dell’85, l’anno della nevicata. Sa di cosa parlo, vero? Certo, come potrebbe non essere così, e scommetto che anche nei suoi ricordi, così come nei nostri, la neve non si è ancora sciolta. Si tratta di un’annata fantastica, sentirà… o meglio, non sentirà.” Quindi se ne va di nuovo, lasciandomi al mio silenzio. Approfitto di questo luogo nascosto in un momento di quiete per iniziare a scrivere alcune lettere, le prime delle quali sono indirizzate ad un certo, anzi, incerto Winslow, una persona conosciuta tempo fa quando ancora avevo il tempo di conoscere le persone; so che in questo momento è da solo, non con il suo dolore ma con quello degli altri, per questo mi dico che una lettera improvvisa potrebbe distrarlo o per lo meno dargli una scusa per lasciare accesa ancora per un po' l’ultima luce che ancora custodisce in casa sua.

Poi, finita di scrivere la prima lettera chiudo gli occhi e dentro al mio silenzio trovo qualcosa che gli assomiglia ma che in realtà è qualcos’altro, è il suono sottile ed incostante dei pensieri e ad ascoltarlo da questa distanza ricorda anche molto il suono che fanno le onde quando ritornano prima di andarsene di nuovo, e all’improvviso penso: “Aspetta… ma certo, le onde! Ecco cosa mancava, cosa devo fare prima di entrare in città, devo rivedere il mare!” Mi alzo dal tavolino, saluto il proprietario e lo ringrazio ma solo con un cenno di una mano per non sprecare il silenzio rimasto (così se qualcuno avrà voglia di provarne un po' lo troverà già pronto) quindi esco di nuovo dalla parte dei binari, vado verso destra, scendo per il sottopassaggio e pochi istanti dopo riemergo a rivedere l’unica stella rimasta ritrovandomi sulla passeggiata di Bordighera.

Eccolo laggiù il mare, proprio dove dicono le cartoline, a dimostrazione del fatto che sanno anche dire la verità quando vi sono costrette. Non lo vedevo da cinque anni… e pensare che al momento della partenza mi era stato detto che lo avrei portato con me nel mio cuore, ci ho anche provato ma non ci sono riuscito perché all’epoca era un cuore troppo piccolo e a volte lo è ancora. Niente sembra essere cambiato a prima vista, anche se non ricordavo queste voci lontane portate dal vento che arriva a ondate o le ombre delle nuvole che cercano di sfuggire a chi vuole per forza vedere in esse qualcosa imprigionandole così in una forma precisa, ma sono aggiunte che non stonano, quindi perché no? Ora che sono qui, ora che ho visto come nemmeno il tempo può davvero far sparire un mare di ricordi, o i ricordi del mare, ora che sono stato rassicurato sulla sua esistenza potrei anche andarmene e invece decido di restare ancora qualche minuto, chissà magari questa sarà la volta in cui riuscirò a capire perché il mare ed il cielo si ostinano a restare così distanti, il perché di tanto risentimento…

… poi invece mi volto dalla parte opposta, come facevo ai tempi in cui qualcuno chiamava il mio nome e scopro che poco distante da me, seduto su una delle tante panchine poste lungo il cammino che tutti devono affrontare prima o poi, c’è un uomo che in queste prime ore della giornata ha già superato la mezza età, vestito in modo da confondersi con ogni tipo di sfondo possibile e nascosto alla perfezione in quel suo silenzio da veglia. Sta osservando qualcosa che riguarda solo lui finché non si accorge di essere osservato e a quel punto dice, con una voce che ricorda quelle che si sentivano in passato alla radio in programmi andati poi perduti: “Oh, sei arrivato finalmente, è già da un po' che sono qui ad aspettarti, e… ah, no, mi scusi, mi sono sbagliato, l’ho scambiata per qualcun altro. Qualcun altro, si.” Pensa un po', essere scambiato per un’altra persona! Quanto tempo era che non mi succedeva? Tanto, neanche mi ricordo quando è stata l’ultima volta, comunque era di sicuro il periodo in cui fingevo di essere più maturo, più grande e le persone ci cascavano in pieno e mi fermavano per chiedermi dei consigli perché volevano essere come me, io dicevo loro qualcosa che assomigliava alla verità e loro ci credevano o forse facevano solo finta di farlo. Incuriosito, mi avvicino a lui e gli chiedo chi credeva che fossi e lui me lo dice, mi dice quella che sembra la verità e io scelgo di credergli perché comunque ora non ho niente di meglio da fare.

“Cosa vuole, l’ho scambiata per mio figlio, il fatto è che lei gli assomiglia davvero molto, specialmente nel modo che ha di guardare in lontananza. Scommetto che avete anche lo stesso nome.” Gli chiedo come si chiama suo figlio e salta fuori che non è così ma in effetti una certa somiglianza tra i due nomi c’è, anche se non credo porterà a nulla. Quindi prosegue dicendo: “Ha chiamato questa mattina e ha detto che sarebbe arrivato in giornata, per questo ho pensato potesse trattarsi di lui quando l’ho vista. Sono cinque anni ormai che abita in una città non troppo lontana da qui e ogni tanto viene a trovarci, pensi che riesce a trovarci anche quando ci nascondiamo ma del resto è sempre stato bravo in questo. E le telefonate che ci fa! Due, anche tre al giorno! A volte per divertirci fa finta di essere uno che ha sbagliato numero e che riattacca per non telefonare mai più, altre volte siamo noi a chiamarlo e allora finge di essere un estraneo, uno che non ha mai avuto a che fare con noi e che non riesce a riconoscerci. Ammetto che in queste occasioni ci spaventiamo un po', soprattutto sua madre, ma sappiamo che è il suo carattere e per questo lo lasciamo fare. Altre volte invece ci scrive con uno stampatello molto piacevole a vedersi, così come a volte è piacevole il contenuto delle sue lettere, le quali chissà perché arrivano ogni volta poco prima che faccia buio, un attimo prima della nostalgia, appena in tempo insomma. Non che io e sua madre si viva male da soli, sia chiaro! Lo sa, stiamo insieme da quasi sessant’anni, sessanta più, sessanta meno… ci siamo conosciuti da ragazzi, lei era la più bella della città, almeno di giorno, io invece ero un semplice insegnante di matematica complicata e sapevo molto di espressioni, molto meno dell’esprimere i sentimenti. L’unico linguaggio che conoscevo oltretutto era quello della matematica ma ammetto che una dichiarazione d’amore piena di numeri non è il massimo se si vuole conquistare qualcuno, a meno che la persona in questione non ami anch’essa i numeri, con il rischio però che in questo caso si possa innamorare di loro e non di chi ha scritto il messaggio. Comunque sia, dopo essermi tormentato a lungo su cosa fare ho seguito il consiglio di un mio amico professore di lettere d’amore e con il suo aiuto ho compiuto un esperimento allora non esattamente legale innestando i numeri in una forma letteraria, e dopo ripetuti insuccessi ho finalmente ottenuto quello che volevo, una specie di filastrocca che le ho regalato un giorno in cui la mia paura era distratta e che fa ancora così:

“In un momento imprecisato che può anche esser adesso
si fa avanti un tipo mano nella mano con sé stesso,
è da solo ma del resto c’è un sol sole e non due soli
non è detto che sia poi così brutto esser da soli;
ma ecco che ne arriva un altro che sta tutto sulle sue,
e se prima c’era un paio d’occhi ora sono due,
si incontrano e c’è già l’accenno chiaro di un sorriso
e quell’ombra solitaria or son due all’improvviso;
giunge quindi un altro che sembra perfetto, quasi un re,
ma lo accolgono comunque tra di loro, e sono tre;
poi arriva uno con tanto di voce, strumento e plettro,
questa compagnia ama assai la musica, e son quattro;
in cerca poi dell’opinione dell’uomo qualunque
ne incontrano uno come loro, e sono cinque;
“Perché non cercare ancora?” dice uno “io lo farei!”
Detto fatto inizia a farlo e poi lo trova, e sono sei;
e son già tanti ma per poter raggiunger nuove vette
servono ancora altre braccia forti, e ora sono sette;
Perché poi accontentarsi di restare a terra, qui sotto?
Basta trovare un che sia volante, ed ecco l’otto;
poi alla partenza uno dice: “Ecco un altro!” “Dove?”
“E’ laggiù che sta arrivando! Sembra che saremo nove!”;
e salendo ecco poi un saggio che del cielo fa le veci,
lo conducono con loro fin lassù, e sono dieci.
Può capitar però che una volta giunti in cima,
l’unione sia guastata e non più salda come prima,
che proprio sul più bello una qualche guerra scoppi
e ci si accorga di essere non in dieci, ma in troppi,
ogni frase sa di inganno, la diffidenza striscia,
ed è così che inizia sempre il conto alla rovescia:
 così il saggio preferisce restar solo, lassù,
lasciando che siano gli altri a tornar soli, laggiù,
ed eccoli cadere come quando fuori piove,
non son più dieci oramai, sono di già nove;
e non si ferma qui perché qualcosa si è ormai rotto,
e infatti in men che non si dica son rimasti solo in otto;
ma ancora troppe son le cose nascoste e non dette,
non ci si stupisca quindi se ora sono solo in sette;
ormai è tutto un “non mi piaci” e “vedi cosa sei?”,
“non posso ma vorrei”, finché poi non sono in sei;
poi altre discussioni, nessuna arriva al dunque,
non si fa così tra pari, e infatti ora son cinque;
ognun di loro vuol essere un re e aver lo scettro,
finché uno va via con la sua corona, e sono in quattro;
ogni pensiero ora è rivolto a “me”, non più a “te”,
e in men che non si dica questo porta ad esser tre;
ed il trio era perfetto, ma “le ragioni mie o le tue!”,
così non può continuare, ed infatti restan due;
e la strada si divide ancora, eppure c’è qualcuno,
perché anche se è rimasto solo, è pur sempre uno;
c’è infatti solo uno che è da solo per davvero,
ed è quello conosciuto come il numero zero.”

“Interessante, complimenti” gli dico non appena ha finito, ed è la verità, mi è piaciuta, ora però dovrei andare e non so come staccarmi da lui, anche perché capisco che non lo ha capito e che non ha ancora finito di dirmi tutto. Infatti prosegue aggiungendo: “Questo è il meglio che ho saputo fare ma è servito visto che l’ha conquistata, e da allora siamo sempre rimasti insieme. Come mi batteva il cuore, quel giorno! Lei se ne è accorta e io, imbarazzato, le ho detto: “tranquilla, non è aritmia, è solo aritmetica” e pensi un po', ne ha riso! Non è stata che la prima volta, da allora abbiamo riso di tutto anche di noi stessi ed è andata bene così, mi pare. Ah, a proposito, lo sa che mio figlio ha la passione per la scrittura, e non per i numeri?” “Adesso lo so” -gli dico- “E cosa scrive, racconti, romanzi…” “Un po' di tutto, in effetti ha da parte tre romanzi ancora da pubblicare: il primo parla di una donna che non sa parlare agli altri ma solo a sé stessa, il secondo non parla, è solo scritto e in esso si trova la storia di un uomo che sa ascoltare tutti tranne la donna che ama, il terzo romanzo invece parla di tutto il resto. Ora se ho capito bene sta lavorando ad un racconto che ha come protagonista un uomo di mezza età che siede su una panchina di un lungomare convinto di stare aspettando il figlio che non ha mai avuto.” “Interessante anche questo” gli dico, ma se devo essere sincero la trama non mi convince del tutto e per di più credo di averlo anche già letto.

“Vero? Quando arriverà, gli chiederò di più su questa storia” -dice ancora l’uomo- “però più tardi… per ora, ho deciso di aspettare qui, e nient’altro.” Forse ha finito, forse no, comunque prima che possa aggiungere qualcos’altro mi alzo e gli dico: “Ora devo proprio andare” ma non è vero e forse lo capisce perché per un attimo il suo sguardo è quello di una persona abbandonata a sé stessa, carico di risentimento e di iodio.
  Non faccio che pochi passi e ancor meno buoni propositi che mi si avvicina uno con una faccia da passante casuale che mi fa: “Ha sentito quante ne racconta, quello lì? Dia retta a me, non è vero niente! Si, può darsi che sia stato un professore di matematica e che abbia scritto una “filastrocca” così lunga per la donna che amava, mettiamo anche che abbia avuto il coraggio di dargliela davvero e che lei abbia ricambiato il suo sentimento, posso anche credere alla storia del figlio che torna ogni tanto… ma che sia stato lui a decidere di aspettare lì, adesso, su quella panchina! Questa poi! Andiamo, è ridicolo! Chissà chi gli avrà detto di mettersi lì seduto ad aspettare, chi glielo avrà suggerito, e lui neanche lo sa, crede sia stata davvero una sua decisione! Perché, lei pensa di essere venuto qui in passeggiata di sua spontanea volontà? Ma non sia ingenuo! Chissà quale amico o film l’avrà ispirata, quale libro le avrà dato il suggerimento, quale pubblicità il consiglio giusto che l’ha poi spinta a prendere la decisione di venire qui! Io, per esempio, pensavo di restare a casa oggi, poi ho sentito alla radio dei benefici delle passeggiate dalle parti del mare ed eccomi qui! L’avrò mica deciso io, no?” e detto questo se ne va, come se qualcuno gli avesse detto di farlo.
 Quanto a me, ora so di aver fatto bene a tornare perché qui di storie ce ne sono ancora tante, da scoprire e forse anche da scrivere, ed è vero che non è stato questo il motivo principale che mi ha spinto a partire ma è comunque qualcosa per la quale varrebbe quasi la pena di ringraziare, anche se non so chi. L’unico dubbio che ho adesso è se quella di tornare qui sia stata davvero una mia decisione o meno… ti scriverò di nuovo non appena l’avrò capito.

Saluti,

(IO).

-5-

Caro Winslow,

dicono che tutto il mondo sia un palcoscenico… beh, se è davvero così, allora io voglio essere quello incaricato di chiudere il sipario.

Non è tuttavia di questo che voglio parlarti, ma del fatto che sono uscito dalla stazione e che finalmente sono entrato in città, e indovina un po'? La prima cosa che mi sono trovato davanti è la piazza della stazione e vorrei poter dire che non è cambiata affatto ma la verità è che a quanto vedo è cambiata più di me, anche se non per gli stessi motivi, almeno credo. Si, la piazza è ancora lì, così come le palme e i posti per le macchine, ma la struttura stessa della zona è stata pesantemente modificata, è stato tolto molto spazio e quindi anche molto tempo dato che le due cose sono inestricabili come ben sai, anche se fingi di ignorarlo dicendo che non hai abbastanza tempo per queste cose. Beh, se non altro l’orologio sulla facciata della stazione resiste ancora alle ingiurie del tempo continuando a misurarlo senza serbargli troppo rancore.

E ora? Si, voglio dire, ora che sono qui? So già quali saranno le ultime due tappe di questo viaggio, il finale e l’epilogo sono già scritti nella mia mente, c’è solo da metterli su carta ma è ancora troppo presto, dovrà essere buio quando arriverò da quelle parti ed è ancora mattino presto. Per ingannare l’attesa, sperando che non si accorga dell’inganno come già successo in passato avevo pensato di andare un po' in giro a riscoprire posti vecchi e nuovi della città, solo che adesso che sono qui e devo farlo davvero… beh, ammetto di non sapere esattamente dove andare, da che parte iniziare. Poi mi dico: perché non cominciare dall’inizio? Lo fanno in molti, un motivo ci sarà, e poi per loro sembra funzionare. Certo, non posso dire di essere o di aver mai fatto parte dei “molti” (anzi, casomai ho fatto la mia parte per restarne fuori) ma al momento non vedo cosa ci sia di male nel provare, quindi… e sia, dall’inizio.

Il che, come è ovvio, non può che essere la casa al civico numero uno.

Non che vi sia in essa qualcosa di davvero speciale a parte quel numero, ma ricordo che da piccolo mi capitava spesso di pensare: “Certo sarebbe bello abitare al numero 1, pensa l’invidia degli altri! Poter dire: “Sono il numero uno!” senza timore di essere smentito!” La cosa più assurda, forse, è che l’ho pensata davvero questa cosa, ma mi conforta vedere come crescendo la mia voglia di primeggiare e vantarmi sia diventata più piccola di me, contrariamente a quanto accaduto a molti miei coetanei. Comunque sia, è un buon posto da cui iniziare questo viaggio, quindi mi dirigo verso la strada, verso l’incrocio che segna il centro esatto di Bordighera e per la prima volta dopo tanto tempo la mia vista si posa sulla via principale della città, quella che la taglia a metà da sempre senza lasciare il tempo alla ferita di rimarginarsi, ed ecco i palazzi e i negozi, le vetrine e i marciapiedi, ecco le macchine e le loro regole, l’ordine e le altre illusioni.

Soprattutto, davanti a tutto questo, ecco la gente.

Più di quanta ne ricordassi, e credo che non sia nemmeno tutta qui… pensare che un tempo credevo di far parte di tutto questo, credevo di avere qualcosa da dire e di dover ascoltare, invece non ero ancora partito eppure ne ero già lontano e capisco una volta di più di aver fatto bene ad andare via cinque anni fa, ora che sono tornato quel vuoto che separa me da tutto il resto viene riempito lentamente dai ricordi e questo rende il tutto molto più semplice e adatto all’occasione. A parte questo, non posso non notare che anche da qui, dal punto in cui mi trovo, è possibile ammirare la particolare struttura della città, sviluppatasi a partire proprio da quella prima casa al civico uno sulla quale tutte le altre sono state modellate e dalla quale hanno tratto ispirazione, per esempio sul modo di chiudere le finestre per far credere di avere chissà quali segreti da nascondere, su come trascorrere vite intere all’ombra degli alberi dei vicini e soprattutto su come aprire la porta alle opportunità avendo avuto però prima l’accortezza di guardare dallo spioncino.

Devo solo attraversare la strada e dirigermi verso destra, c’è un po' da camminare ma ne varrà la pena; mi dirigo quindi da quella parte, affiancato da negozi che offrono tutto quello di cui ho sempre avuto bisogno -e io che ancora non lo sapevo- finché non raggiungo il luogo dove da che ho memoria, e forse anche da prima, si trova la casa al civico numero uno.

Arrivato a destinazione, mi attende però una sorpresa: la casa non c’è.

Al suo posto una casa identica, ma al civico numero zero.

Questa poi… ma cosa significa? Eppure il posto è questo, e la casa… si, è un po' invecchiata, sciupata dalle fatiche quotidiane, ma è lei, ne sono certo. Cosa può essere successo?

Non faccio in tempo ad immaginare o inventare una risposta, che una voce alle mie spalle dice:

“Da non credere, vero? Cose del genere non dovrebbero mai accadere! Io almeno la penso così.”

Mi volto, e mi trovo davanti un uomo che assomiglia a una di quelle persone che a volte si incontrano così, un po' per caso e delle quali poi non si riesce a ricordare nulla, nemmeno se è stato davvero un caso oppure no. Un uomo che potrebbe avere qualunque età e invece chissà perché ha scelto di avere quella con cui si presenta agli altri, un’età che sembra voler suggerire maturità che però almeno per me non è mai stata sinonimo di saggezza. Decido comunque di stare al gioco e gli chiedo: “Lei sa cosa è successo? Ricordo che qui si trovava la casa al numero uno… questa è una casa che assomiglia a quella, oppure…”

“Oppure” -dice l’uomo. – “Questa è la stessa casa di allora, solo ad un numero diverso. E si, so cosa è successo qui perché ero presente quel giorno, così come tutte le altre persone del resto.”

Guarda ancora un attimo la casa, poi dice: “Si, questa casa è stata la prima, tutto è iniziato qui e in questo luogo negli anni hanno soggiornato importanti personalità, eminenti scienziati, artisti di talento ma soprattutto i vari sindaci che nel tempo hanno avuto la responsabilità di rappresentare questa città, ricoprendo una carica che in alcuni casi ha finito col coprirli del tutto. Le cose sono andate bene fino ad un anno bisestile di qualche tempo fa, quando il nostro calendario nel mese di febbraio ha indicato come ultimo giorno non il 29 febbraio ma il 30. Qualcosa che non capita tutti i giorni, tanto meno quelli bisestili. Come può immaginare i nostri migliori esperti sulle cose della vita si sono subito messi a studiare il fenomeno e dopo essersi consultati hanno stabilito che esso doveva essere dovuto:

  1. Ad un errore di stampa, ipotesi questa subito scartata poiché la stampa non sbaglia mai;
  2. Ad un atto divino, ci era stato dato un giorno in più per prepararci al giudizio che ci aspetta;
  3. Ad un accumulo di tempo da perdere che non era stato perduto come previsto.

Alla fine, come capita spesso, è saltato fuori che nessuna di queste ipotesi era quella giusta, infatti ad un certo punto si è fatto avanti un giovane scienziato locale che ci ha rivelato la verità: egli si era proposto di dimostrare una volta per tutte agli scettici che la terra è rotonda tramite un apparecchio di sua inventiva che però ha avuto come effetto collaterale quello di rendere tonda anche la cifra che indicava quel giorno, facendo così diventare il 29 un 30. Egli ha però anche subito assicurato di poter riportare le cose alla normalità con un’altra sua invenzione, cosa che ha in effetti fatto, sottraendo un numero e riportandoci al 29… con un solo effetto collaterale: anche i numeri civici della città hanno perso un numero e quindi ecco che il 3 è diventato 2, il 2 è diventato 1, e l’1… è diventato uno 0, o “zero” che dir si voglia.

Ovviamente l’inquilino della casa non l’ha presa affatto bene, e come biasimarlo! Fino ad un attimo prima era stato “il primo cittadino” ed ecco che ora si ritrovava ad essere uno zero, un signor nessuno senza alcun valore se non per i suoi familiari, forse. Certo, d’altra parte chi abitava prima nella casa numero due, ovvero il sottoscritto, si è ritrovato ad essere all’improvviso “il numero uno” e mentirei se dicessi che la cosa mi sia dispiaciuta o che non fossi pronto alle responsabilità che tale carica impone ma del resto era un sogno che avevo da anni e dopo aver interpretato quella parte nella mia mente per così tanto tempo ho scoperto che non è poi così difficile farlo anche nella realtà, l’importante è non far capire al pubblico che si sta recitando.

“Si, capisco” -ho detto io- “Ma… la gente? Il resto delle persone? Come hanno preso questa “sottrazione di un numero?” “Beh, che vuole, i primi tempi… si, ne hanno parlato, discusso, qualcuno si è anche lamentato e ci sono state delle proteste, ma la maggior parte delle persone non ci ha fatto troppo caso. Del resto, lei pensa che all’uomo e alla donna della strada importi davvero qualcosa della matematica? Guardi, forse giusto del più e del meno, ma niente di più.”

“Niente meno!” -ho detto allora io, colpito.

“Eh si” -ha detto ancora il sindaco, aggiungendo poi: “Comunque sia, ora che abbiamo sbrigato le solite formalità, lasci che le dia la mano ed il bentornato nella nostra città! Lo sa, ho quasi temuto di non riuscire ad arrivare in tempo per accoglierla! In effetti avrei dovuto farlo alla stazione, ma è andata così!”

“Perché, lei… mi stava aspettando?! Com’è possibile, non ho detto a nessuno qui che sarei tornato!”

“Ne sono certo, ma sa come sono le persone, no? Parlano, parlano (lo fanno perfino nel sonno, il che è tutto dire) uno sente una cosa per sbaglio, la racconta ad un altro, che la riferisce poi ad un altro ancora… ma non si preoccupi, noi qui sappiamo rispettare la privacy, come vede sono venuto solo io senza seguito o banda ad accompagnarmi, anche se non sarebbe stato male.”

“Grazie, lo apprezzo molto” gli dico, ed è vero. La banda… non posso nemmeno pensarci! Devo però pensare a come hanno fatto sapere che sarei tornato. Chi può essere stato a parlare? E chi ad ascoltare? Ci sto ancora pensando su, quand’ecco che il primo cittadino mi chiede:

“Se posso chiederglielo… perché è tornato qui dopo tanti anni? Perché sono tanti, vero?”

“Cinque anni” -gli dico- “E si, sono tanti, a volte. Altre volte invece lo sembrano soltanto. Quanto al perché sono tornato i motivi sono due, il principale è che… l’ultima volta che sono stato qui c’era una persona con la quale avevo iniziato un discorso che si è interrotto all’improvviso e voglio capire se…” poi però non dico altro, come se non avessi ancora capito cos’è che voglio capire e mi sa, anzi temo che sia così.

Il primo cittadino qualcosa forse ha capito però visto che dice: “Si, so che altre persone sono tornate per lo stesso motivo, e posso capirlo. E il secondo motivo?”

“Il secondo motivo?” -penso e quasi lo dico a voce alta; si, c’è anche un secondo motivo o almeno c’era, anzi era il più importante dei due, ricordo di essermi detto che era quello che mi aveva spinto a partire, anzi devo anche averlo lasciato scritto da qualche parte, eppure…

…eppure, adesso, in questo momento, per un istante non riesco a ricordarlo, come se non fosse poi così importante o non lo fosse mai stato. Si, è solo un attimo, davvero, però è reale e deve pur voler dire qualcosa. Poi però riesco a ricordarmelo e dico: “Il secondo motivo è che credo ci siano delle storie che questa città nasconde, e visto che a me piace parecchio cercarle e raccontarle ho pensato di venire a vedere se è davvero così.”

“Storie sulla nostra città? Ma è magnifico!” -esclama il primo cittadino con tanto di punto esclamativo. “Sono certo che ne troverà molte, e anche interessanti. In effetti…”

“Si? Che cosa?” -gli chiedo io, ma solo per incoraggiarlo a parlare perché so già quello che dirà.

“Beh, ecco… so che mi considererà uno sfacciato, ma in effetti io avrei una storia da raccontare. Non so se sarà abbastanza interessante per lei, ma…”

“L’unico modo per saperlo è ascoltarla” -gli dico- “E del resto ha senso che la prima storia arrivi dal primo cittadino, credo.” L’uomo sorride e annuisce, anzi no, annuisce e basta, quindi mi fa cenno di seguirlo fino ad una delle panchine che si trovano all’inizio del viale che porta al teatro della città. Una volta preso posto, inizia a raccontare, dicendo: “Questa è una storia accaduta tempo fa, quando i miei nonni erano solo dei bambini e ai bambini ancora non veniva insegnato a non credere a quello che i nonni raccontavano.

A quel tempo le persone si accontentavano di quello che avevano perché non sapevano di avere poco, quasi nulla in effetti: guardavano il cielo e lì si nascondeva Dio nel suo silenzio azzurro senza confini e senza spiegazioni, guardavano il mare e là sotto si celava un mistero del quale non conoscevano il nome né la profondità, tutto quanto il resto era la loro vita e a loro andava bene così.

All’improvviso però tra la gente iniziarono a manifestarsi i sintomi di una nuova malattia che nessuno aveva mai conosciuto prima; un giorno le persone incontravano qualcuno che conoscevano da sempre ed improvvisamente quel qualcuno diventava la persona più importante della loro vita, senza la quale la suddetta vita da quel momento sembrava non avere più la stessa importanza e se la cosa non era ricambiata il malato peggiorava rapidamente fino a ritrovarsi con il cuore spezzato in due o più metà. La nuova malattia sembrava inarrestabile, si contraeva tramite gli occhi e bastava un solo sguardo a trasmettere il contagio e quando si trattò di darle un nome, visto che “dolore” era già stato preso, un giovane che amava creare parole nuove propose “amore”. La parola venne subito adottata ma questo non servì a debellare la malattia, finché un giorno la salvezza arrivò nella figura di un uomo che scese dalle ombre più profonde delle montagne.

Si diceva che avesse imparato il linguaggio degli sconosciuti e che fosse riuscito ad addomesticare la luna, che lo seguiva fedele restando sempre dietro di lui, alle sue spalle. L’uomo conosceva la malattia e ne era guarito ma la cura che aveva funzionato per lui non sarebbe andata bene per gli altri, così propose una soluzione alternativa e creò delle maschere di creta da far indossare a uomini e donne, inventando così la “bellezza”. Da quel momento nessuno più si spinse fino a guardare negli occhi qualcun altro, meno che mai dentro di essi, accontentandosi di qualcosa di più superficiale, l’apparenza, e fu così che da allora l’amore sebbene non eliminato del tutto divenne molto più raro. Certo, questo comportò anche la nascita dei cosiddetti “soli”, ma fu un piccolo prezzo da pagare per la salvezza, non crede?”

Annuisco, perché non solo lo credo, lo so per certo. Poi, il primo cittadino ricomincia a parlare e dice:

“Poi, se vuole, c’è una storia più recente che mi riguarda e che ha a che fare con il mio essere sindaco, perché se è vero che mi sono ritrovato ad essere il primo cittadino per il caso fortuito che le ho raccontato, è anche vero che diverse persone non l’hanno presa bene e in breve sono stato sfidato a partecipare ad una elezione vera e propria per vedere se i cittadini avrebbero confermato la volontà espressa dal fato.

Ho accettato perché nonostante tutto ho preso subito sul serio il mio nuovo ruolo cercando di essere il più comunicativo possibile con gli abitanti della città soprattutto con quelli che non mi avevano votato, cioè tutti, il che ha significato naturalmente farmi vedere il più possibile in giro e rilasciare interviste. In questo caso, l’emozione dell’esordiente mi ha giocato contro, infatti rispondendo ad una domanda riguardante certe agitazioni tra lavoratori e sindacati, mi è riuscito di dire: “Non ricordo sia compito del sindaco sindacare su sindacati e sindacalisti, sin da che ho memoria.” Mi sono reso conto subito di quanto la frase suonasse strana, così come l’hanno notato i miei critici più o meno severi e già si prevedevano titoli sui giornali, prese in giro e satira varia; invece, anche grazie all’uso che ne ha fatto un musicista locale campionandola in un suo pezzo, quella frase è diventata famosa e quasi un marchio per me, ispirando simpatia invece che derisione. Questa si è trasferita inaspettatamente anche ai bambini, che hanno iniziato a scrivermi delle lettere molto carine e personali con domande interessanti come “è difficile essere te?”, “cosa vedi quando chiudi gli occhi?”, “qual è il tuo suono preferito?” e soprattutto “di cosa hai paura?”

Lo sa? Da tempo avevo la risposta a quest’ultima domanda ma era qualcosa che non credevo i bambini avrebbero potuto capire, più che altro me lo auguravo, così mi sono limitato a rispondere: “del buio!”, ma era una bugia. La vera risposta, ora posso dirlo, avrebbe dovuto essere questa:

“Di cosa ho paura? Di quel qualcosa che in certi momenti, specialmente la sera o prima di andare a dormire, mi fa restare fermo lì dove mi trovo con lo sguardo perso nel vuoto. Mia moglie allora mi chiede: “Che cosa c’è?” e io le vorrei rispondere “non lo so” ma invece ogni volta dico: “Niente. Va tutto bene.” Non è vero, non è mai vero, ma non so come spiegarlo… il fatto è che non si tratta di “cosa c’è” quanto piuttosto di cosa “non c’è”, di qualcosa che ancora manca là fuori o qui dentro di me e il non sapere esattamente che cosa sia, non riuscire a capirlo… ecco, è questo che mi spaventa, che fa paura”.

Le pare che si possa scrivere una cosa del genere ad un bambino? No, vero? Almeno non finché quel bambino sarà pronto egli stesso a scrivere parole simili. Ecco quindi una piccola invenzione, quelle che una volta venivano chiamata “bugie”, non so se si ricorda, ed ecco quindi “il buio.” Che poi, a dirla tutta, una bugia lo era solo a metà, perché è vero che ora il buio non mi fa più paura, ma quando ero piccolo…”

“A chi lo dice” gli dico, sapendo bene che lo sta dicendo a me stesso e che sarebbe stato meglio non lo avesse fatto perché non siamo né saremo mai abbastanza amici per scambiarci una confidenza simile, che spero dunque di dimenticare in fretta.

Comunque sia un attimo dopo è di nuovo lui a parlare, e dice: “Poi vediamo, che altro? Ah si, le manifestazioni che ho creato… per esempio, ho pensato che è bello che ci sia il “festival dell’umorismo”, certo, ma che si poteva andare oltre, quindi quattro anni fa abbiamo organizzato anche “il festival della mancanza di umorismo”, poi “il festival della canzonatura italiana”, l’anno scorso quello sui primi anni del cinema intitolato “scene mute: parole sul cinema prima del parlato” e quest’anno abbiamo in mente di organizzare il “festival del senso della vita”. Non male, no? A dire il vero non siamo ancora riusciti a metterci d’accordo su quale sia questo senso ma confido che lo troveremo in tempi brevi, del resto di sensi ce ne sono solo cinque, dovrà pur essere uno di quelli, no? Un’altra manifestazione della quale sono particolarmente orgoglioso è “Le chiavi di sol(stizio) della città”, una celebrazione dell’inizio dell’estate al termine della quale, al sorgere del sole, abbiamo aperto tutti insieme le porte alla nuova stagione lasciando ascoltare ai nostri vicini la musica che amiamo di più, così, come un regalo. Lo sa, vedere arrivare all’improvviso tutta quella luce, tutta assieme, unita alla musica, io… io ho pensato che sarebbe andato tutto bene, che ce l’avremmo fatta, tutti quanti insieme, e lo penso anche adesso che le porte si sono ormai chiuse da tempo per rispetto dell’autunno che sta per arrivare.”

Detto questo si alza, io faccio lo stesso, ci stringiamo la mano, e poi… “Santo cielo, quasi mi dimenticavo!” dice, ed estratto dalla sua giacca un piccolo libro, me lo porge dicendo: “Ecco, un omaggio di bentornato.”

Sul libro c’è scritto: “Guida disinteressata ai luoghi interessanti della città.”

“Credo proprio le sarà utile” -mi dice- “Riporta indicati tutti i luoghi di maggior interesse della città; se è in cerca di storie, lì ne troverà di sicuro.”

“Grazie, penso proprio che mi sarà utile” gli dico, e questo sarebbe un ottimo momento per lasciarci, invece resta lì fermo in silenzio come se il silenzio fosse una cosa che gli appartiene e poi quando è pronto dice: “Penso spesso a quando il mio tempo come sindaco sarà finito e la cosa mi rattrista ma non rimpiango niente, se non forse due sole cose: aver pianto solamente quando gli altri non mi guardavano e aver cercato di modellare questa città a mia immagine e somiglianza quando forse avrei dovuto farla a immagine e somiglianza di Dio”. Detto questo se ne va, come se fosse arrivato al termine del suo mandato o fosse terminato il compito assegnatogli da chi lo ha mandato da me, lasciandomi da solo con i suoi pensieri e con la guida che mi ha regalato. La rigiro tra le mani, ne sfoglio distrattamente qualche pagina e poi mi dico che è vero, mi sarà molto utile, ma non nel modo che crede lui. Andare nei posti più interessanti della città in cerca di storie? Ma lì ci vanno già tutti, ormai le avranno trovate, vissute o molto più probabilmente solo spiate, invidiate e quant’altro… no, no, figuriamoci. Io devo andare negli altri luoghi, in altri posti, quelli dove non va mai nessuno e dove nessuno aspetta mai visite o telefonate.

Nei posti importanti vivono persone importanti che hanno già avuto tutto dalla vita.

Non vedo perché dovrebbero avere anche la mia attenzione.

Altrove dunque, dalla parte opposta, e di quello che troverò lì te ne parlerò non appena sarai pronto.

Saluti,

(IO).

-6-

Caro Winslow,

qualche istante fa, per qualche istante, mi sono sentito come sperduto, lontano da ogni cosa, come se non mi trovassi in nessun posto, tanto che quando si è avvicinato un tipo chiedendomi: “scusi, lei è del posto?” non ho potuto fare a meno di rispondergli: “in questo istante no, mi dispiace.”

Secondo te si sarà offeso? So che a te sarebbe successo ma se non altro tu hai sempre avuto il buon gusto di non andare in giro a fare domande del genere agli estranei, meno che mai alle persone che conosci, comunque sia non è per questo che ho deciso di scriverti questa lettera, quindi veniamo al dunque.

Dunque, veniamo a noi, anzi scusa, a me e al mio camminare per le strade di questa città che mi ha accolto di nuovo in sé senza fare storie, forse perché non si è accorta del mio ritorno o forse perché le storie non le deve fare ma sono già fatte da tempo e aspettano solo che io le trovi. Non volendo però usare la guida che mi è stata donata dal primo cittadino per i miei soliti complicati motivi ora non so bene come trovare qualcosa che meriti la mia attenzione, così ad un certo punto mi dico: “Ok, se fossi arrivato qui in città questa mattina presto, diciamo con il treno, adesso dov’è che andrei?” Buona domanda, per qualche motivo però la prima risposta che mi è venuta in mente è stata “a casa” e normalmente sarebbe la risposta migliore ma non in questa occasione, quindi ho lasciato vagare lo sguardo finché non ha incontrato qualcosa di interessante, l’insegna di un bar il cui nome non sono riuscito a leggere perché coperto da ombre che ora sono quelle dei rami di un albero ma in futuro saranno quelle della memoria che avrà cose più importanti da ricordare. Mi dico “perché no?” e finisco col dirigermi da quella parte proprio perché non riesco a trovare una risposta, pensando che lì magari incontrerò qualcuno capace di trovarne una per me.

Arrivo davanti al suddetto bar e capisco subito di aver fatto bene a venire qui poiché c’è davvero qualcosa di interessante: una bizzarra coppia di anziani, marito e moglie, seduti ad un tavolino un po' in disparte rispetto agli altri clienti. Lei indossa una pelliccia appartenuta ad una moda estinta ormai da anni mentre lui indossa qualcosa di simile agli abiti di un navigato uomo di mare che non ha più nessuna voglia di navigare, una coppia che sembra approdata lì per cercare riparo da una tempesta che potrebbe anche arrivare ma che non riuscirà a cambiare nulla di quanto è stato fatto o è rimasto in sospeso, e che al momento è impegnata nel seguente dialogo che riporto per intero così come si è svolto:

“Cara? C’è qualcosa che non va?”

“No… cioè, non lo so, è che…”

“Cosa?”

“Ho come l’impressione di avere dimenticato qualcosa di importante.”

“Che cosa?”

“Hm, se lo sapessi lo saprei, non credi?”

“Si, scusa cara, hai ragione. Ah, questa poi, perché ti ho chiesto scusa?”

“Non lo so, ma lo fai continuamente, e ti ho già detto che è un’abitudine che dovresti davvero perdere.”

“Perché mi fa sembrare debole, è vero, me lo hai già detto.”

“Debole e sempre in errore, e nessuna delle due cose è vera o comunque da far sapere in giro, ti pare?”

“Si, è vero, scus… oh, scusami, stavo per dire di nuovo “scusa”, che sciocco.”

“Non importa, devi solo lavorarci un po' sopra. Ora piuttosto aiutami a ricordare.”

“Ricordare cosa?”

“Quello che ho dimenticato, che non riesco a ricordare!”

“Oh, è vero, hai ragione! Scusami cara, me ne ero completamente dimenticato!”

“Sapessi quanto è fastidioso! Sono certa di avere dimenticato qualcosa, ma non so di cosa si tratta, né dove l’ho lasciata!””

“Forse è qualcosa che hai lasciato a casa?”

“Ecco si, bravo! Si tratta di qualcosa che ho dimenticato a casa, è vero!”

“Vedrai che ti verrà in mente. Aspetta, non sarà un qualche documento? La carta d’identità, magari?”

“Caro, sono anni ormai che so chi sono, che me ne farei di una carta simile? E poi non si era detto…”

“… di non pensare più alle carte e ai giochi d’azzardo in generale, hai ragione, cara, è vero.”

“Oh, ecco, vedi? Non hai detto “scusami”!”

“Hai ragione, che maleducato che sono! Scusami!”

“No, scusami tu questa volta, colpa mia. E comunque no, non si tratta della carta d’identità.”

“Un qualche altro tipo di documento? Mi verrebbe da dire la patente, ma tu non hai mai avuto alcun interesse a guidare le macchine.”

“O le persone, se è per questo. No, mi sa che mi sono sbagliata, non è qualcosa che ho dimenticato a casa, ma che ha a che fare con la casa.”

“Ah si? E in che modo?”

“Ha a che fare con noi due, con me e con te… si, ecco, ci sono! Ha a che fare soprattutto con te!”

“Con me? Non sarà qualcosa che ho dimenticato io, alla fine? Credo che me ne ricorderei!”

“No, non in questo caso, ma del resto come potresti dimenticare quello che ancora non hai capito?”

“Cara, io non capisco.”

“Appunto, ma non importa, perché si tratta di qualcosa che ho capito io.”

“Ah, ho capito. E sarebbe?”

“Che tu non mi ami più. E già da qualche mese, a dirla tutta.”

“Cosa? Ma no, io… cara, ti sbagli, davvero!”

“Non spaventarti ora, resta calmo, respira a fondo e pensaci, cerca di pensare a noi due.”

“Si, lo sto facendo, ma…”

“Pensa a noi due, alle nostre giornate insieme, e poi dimmi di nuovo che mi sto sbagliando.”

“Io…”

“No, non “io”, noi. Pensa a noi. Io e te, insieme, giorno dopo giorno. Per mesi, e anni.”

“…”

“Allora? Ti ricordi adesso?”

“Si. Si, è vero cara, è così, scusami. E anche per aver detto di nuovo scusami.”

“Non preoccuparti, sono cose che succedono, del resto siamo partiti con una tale fretta…”

“Già, era inevitabile scordarsi qualcosa lungo la strada. Comunque mi dispiace, cara, soprattutto…”

“Si? Per cosa?”

“Per non avertelo detto prima che tu lo dicessi a me, o per non averlo capito prima che lo capissi tu.”

“Non preoccuparti, passerà. Piuttosto, dimmi: è finito tutto verso gennaio, vero?”

“Si, ora che mi ci fai pensare è stato proprio allora! Ma tu come fai a saperlo?”

“Non ti ricordi che freddo faceva? Da cos’altro poteva essere provocato, se non dalla fine di un amore?”

“Si, mi ricordo, hai ragione cara. Ma… e adesso? Cosa faremo?”

“In che senso?”

“Voglio dire, siamo arrivati qui insieme, ma ora che le strade si dividono dovremo tornare indietro da soli.”

“E perché le nostre strade dovrebbero dividersi? Solo perché non mi ami più?!”

“Beh, si, io pensavo che…”

“Santo cielo, quanto sei melodrammatico! Per forza i melodrammi ti riescono meglio delle tragedie!”

“Cara, io continuo a non capire, vuoi che restiamo insieme? Anche se…?”

“Anche se, cosa? Tanto per cominciare, siamo già insieme, anzi, siamo ancora insieme, no?”

“Beh, si, ma…”

“E in secondo luogo, scusa se te lo chiedo, ma per caso hai già un’altra?”

“Un’altra? Intendi dire, un’altra donna?! Ma no, cara, te lo giuro! Non potrei mai!”

“Sei così caro, caro. Ma perché dici che non potresti mai?”

“Perché io ti amo ancora! Aspetta, ma come può essere? Eppure… è vero!”

“…”

“Si, è vero, cara, io ti amo ancora, mi ero dimenticato anche questo. Ma come è possibile?”

“Caro, ricordare le cose non è mai stato esattamente il tuo forte, ricordi?”

“No, voglio dire, come posso amarti… e non amarti più? Come possono essere vere entrambe le cose?”

“Non lo so, ma forse non è così; magari sono entrambe false, chi lo sa. E comunque, hai detto che non c’è un’altra per ora, vero?”

“No, te lo giuro. Cioè si, non c’è, te lo giuro.”

“Allora magari possiamo restare insieme ancora un po', mentre aspettiamo che arrivi.”

“Si, perché no? E d’ora in poi, niente più melodrammi o tragedie. Ti andrebbe piuttosto una commedia?”

“Ecco, si, bravo, una bella commedia, come quelle che scrivevi un tempo. Solo una cosa, però…”

“Si? Che cosa?’”

“Se non mi farà ridere, prometti di non farne un dramma?”

“Promesso!”

E la cosa potrebbe finire qui, se non fosse che l’uomo sente il bisogno di aggiungere:

“Io lo so, sai, che anche tu non mi ami più, che da tempo non riesci a trovare altro amore per me. Però chissà, magari basterà quello che c’è stato?” Accortosi però che lei non ha sentito, le chiede:

“Ho detto qualcosa, cara?”

“Mh? Scusa, stavo pensando solo a me stessa. Hai detto qualcosa, caro?”

Lui allora, più triste di qualche attimo fa, come se si fosse accorto solo ora di essere stato lasciato, dice:

“No. No, niente.”

A quel punto, è finita. E un attimo dopo, ecco che dietro di me qualcuno inizia ad applaudire; mi volto e trovo un piccolo gruppo di persone, forse nemmeno troppo piccolo, dipende dal numero di comparse che si deciderà di usare nella scena. Li guardo tutti, uno per uno, più incuriosito che spaventato, e dico:

“Ma che significa? Non capisco, era tutto finto? Sono due attori, per caso? Stavano recitando?”

“No, niente affatto” dice una voce tra le altre. “O per lo meno, non adesso.”

Chi ha parlato è un uomo poco più grande di me, basta guardarlo per vedere chiaramente che alle spalle ha tutto un passato forse anche interessante ma che al momento non mi interessa affatto conoscere, mentre vorrei capire meglio quello che ha detto e quanto è successo qui fuori poco fa.

“In che senso? Sono due attori oppure no?” gli chiedo, e lui: “Si, lo sono, o meglio lo sono stati, ma quello che hanno fatto qui fuori non è stato recitare, non lo è mai del resto.”

“Mai? Cioè, non era la prima volta?” dico, sinceramente stupito.

“La prima? No, niente affatto! Ora non ricordo esattamente, ma facendo un rapido calcolo credo sia stata, vediamo… si, l’ennesima.”

“Addirittura? Eppure avrei detto… sembravano così spontanei, così naturali.”

“Oh, se è per questo lo sono sempre, gliel’ho detto, non recitano mai quando parlano tra di loro in quel modo, e comunque non è mai la stessa discussione, ogni volta riguarda un qualcosa di diverso. Un giorno, per esempio, hanno parlato per più di un’ora sul significato della parola “antitetico” perché lei era convinta che avesse a che fare con la vaccinazione contro il tetano mentre lui pensava che si trattasse di qualcosa che andava contro l’estetica, insomma due concetti del tutto contrapposti. Un’altra volta hanno parlato per quasi tutto il pomeriggio su un’idea che aveva avuto lui, e cioè che fossero le persone con il loro camminare a far ruotare la Terra, e lei a ribattergli di continuo: “e allora quelli che camminano in senso opposto?”

“Buffo, anche io ho avuto la stessa idea da piccolo, e mia madre la stessa obiezione” gli dico. “Però, anche se prima non stavano recitando, lo hanno fatto in passato, no? Ha detto lei che sono stati due attori.”

“Si, avevano creato una compagnia di recitazione piuttosto popolare tra le due guerre, però in seguito è naufragata e si sono salvati soltanto loro due.”

Poi, per qualche ragione, aggiunge: “Ha sete? Posso offrirle qualcosa?” e come succede sempre in questi casi un attimo fa non avevo sete ma ora che mi ci ha fatto pensare mi è venuta, quindi accetto.

Dentro il locale noto subito la cosa più evidente, ovvero le tante foto appese alle pareti: cantanti, musicisti, gruppi di ogni genere ed epoca. Mentre aspetto il mio bicchiere d’acqua, anzi, il suo bicchiere con la mia acqua, si accorge della mia curiosità e mi dice:

“Ha visto quanti complessi? Si, all’epoca non li chiamavamo gruppi ma “complessi”, hanno suonato tutti qui a partire dai primi anni ’60 quando il proprietario era mio padre e continuano a farlo ancora oggi visto che sono rimasto io a mandare avanti la tradizione.”

Guardo quelle foto più da vicino ma non troppo, non vorrei prendermi confidenze da ammiratore o peggio ancora da amico, e vedo fotogrammi di quella che una volta deve essere stata una vita in movimento, immagini che ritraggono giovani figure indecise tra il bianco e il nero, e sui loro volti si ritrovano ancora intatti sorrisi che a volte emergono dal buio e altre volte invece scompaiono e si arrendono nella luce; li vedo indossare vestiti che dicono chiaramente ciò che non vogliono più essere costretti ad essere, portare i capelli come se fosse vero che il giudizio degli altri non importa nulla, ma soprattutto li guardo essere giovani senza sapere che questo li avrebbe condannati ad invecchiare man mano che il futuro diventava sempre più inevitabile e senza sapere che il fatto di essere giovani in quel tempo ha evitato a me quel destino permettendomi di essere giovane oggi, in un tempo dentro al quale posso ancora nascondermi.

Tra tutte le foto a colpirmi più di ogni altra è quella di un ragazzo e una ragazza che cercano di entrare insieme nella stessa inquadratura e mentre ci provano sorridono e scherzano perché non sanno che dopo sono passati anni e che oggi ci siamo noi qui, al loro posto, a guardare quel momento che ormai non è altro che un’immagine, e perché non sanno che quando noi oggi proviamo a fare la stessa cosa e a sorridere nello stesso modo le foto vengono sempre mosse anche se tutto il resto del mondo è ormai immobile, mentre loro non ci sono più o magari non ci sono ancora e noi non abbiamo più il tempo di aspettarli.

Poi, chissà perché, quell’uomo sconosciuto che resterà tale anche dopo qualunque confidenza stia per farmi, dice: “Vuole sapere una cosa? Tutti quelli che hanno frequentato il locale nel corso degli anni hanno un sacco di ricordi legati a questo posto, come è giusto che sia, ma io… io ne ho uno speciale.”

“Uno solo? Ma tutti i ricordi sono speciali, no? A scuola mi hanno insegnato così” gli dico io. E lui:

“Davvero? Si vede che quel giorno ero assente, e del resto mi capitava spesso, non che fossi di salute particolarmente cagionevole ma è che all’epoca dovevo restare sveglio fino a tardi per dare una mano a mio padre a scrivere le lettere che avrebbe poi spedito a suo padre e nelle quali cercava di spiegargli come fare a tornare indietro visto che egli era ancora disperso in guerra e non riusciva a trovare la strada di casa, quindi capirà, la mattina per me alzarsi era un bel problema, altre volte poi dovevo saltare la scuola per aiutarlo ad aprire il locale, quindi… comunque sia, una volta durante una passeggiata in una delle mie rare serate libere mi è capitato di andare ben oltre i confini della città, oltre i campi coltivati e quelli elettromagnetici, fino ad arrivare in un punto in cui l’erba alta e gialla lasciava spazio ad una vasta radura circolare, ed è stato proprio lì che…”

“Che cosa?” gli chiedo io, perché ora mi trovo presso quella radura con lui, e sembra sia già notte.

“… è stato proprio lì che si è svolta la resa dei conti tra due gruppi che un tempo erano uno.

Sto parlando naturalmente de “Gli uni e gli altri”, ne ha sentito parlare, vero? Lo immaginavo, sono stati un gruppo molto popolare tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta, poi sono spariti e nessuno ha mai saputo cosa gli sia successo… ebbene, io lo so, perché quell’ultima notte ero lì. Prima della sparizione però, c’è stata la separazione; tutti i loro successi non sono bastati a tenerli uniti, né sono servite l’amicizia o la musica, e al momento dello scioglimento i due leader e chitarristi hanno rivendicato entrambi l’uso esclusivo del nome senza riuscire a mettersi d’accordo. Pensarono allora ad una soluzione cinquanta e cinquanta, dividendolo in due, così da quel giorno si ebbero due gruppi, “Gli Uni” e “Gli Altri.”

Purtroppo, questa soluzione invece di risolvere i problemi ne creò degli altri, poiché se è vero che al momento di essere ingaggiato il primo gruppo veniva confuso ogni volta con quello de “Gli Unni”, agli altri non andava meglio poiché erano vittime di battute del tipo “avete chiamato questi per suonare? Vi avevo detto che volevo gli altri!” e via con altre facili ironie di questo genere. Ci volle poco ai due gruppi per capire che in quel modo non sarebbero andati da nessuna parte, e così un giorno i due leader decisero che i gruppi si sarebbero sfidati ad un duello all’ultima nota per il diritto ad utilizzare il vecchio nome.

Ah, mi creda, avrebbe dovuto esserci! E molta altra gente avrebbe dovuto essere lì, quella è stata un’esibizione che avrebbe meritato un pubblico numeroso, e invece il destino ha voluto che vi assistessi solo io, chissà poi perché. Comunque sia, ad aprire le ostilità fu la sfida tra i due batteristi, un assolo da venti minuti come si usava allora, suonato da entrambi simultaneamente, una prova di resistenza per vedere chi avrebbe ceduto per primo. Ebbene, nessuno dei due lo ha fatto, si sono fermati esattamente nello stesso momento dopo un’esibizione di forza e resistenza al termine della quale delle due batterie restavano solamente le bacchette in mano ai due musicisti;

è stato poi il turno dei due bassisti, i quali hanno iniziato anche loro con un assolo eseguito contemporaneamente finché all’improvviso uno dei due non ha iniziato a suonare le note più basse del proprio strumento e l’altro, capite le intenzioni dell’avversario, lo ha seguito in quel percorso discendente che li ha portati su frequenze talmente basse che la terra stessa intorno a loro ad un certo punto ha iniziato a piegarsi e incurvarsi verso l’interno, come attirata da un qualche buco nero, trascinando con se i due strumenti, e chi li suonava avrebbe fatto la stessa fine se non avessero lasciato la presa in tempo;

terminata anche questa sfida in parità è stata la volta dei due tastieristi, di nuovo due lunghi assoli, questa volta eseguiti su scale discendenti e ascendenti, suoni di organo come all’interno di una qualche cattedrale notturna dove le luci delle finestre della città in lontananza erano le candele accese indifferentemente da credenti o meno, ma anche qui nessun risultato definitivo anche perché i due hanno ultimato la loro prova con una nota finale sostenuta per diversi minuti tenendo premute le dita fino a farle affondare tra il bianco e il nero dei tasti, arrivando a farli mescolare e producendo così un suono grigio in grado di anticipare il colore degli gli occhi della gente in autunno, e che ha suggerito loro di fermarsi prima che quella stagione fosse costretta a tornare in anticipo.

Infine, dopo questa ulteriore parità ecco finalmente la sfida tra i leader dei due complessi, entrambi chitarristi e cantanti; per un po' sono rimasti immobili a guardarsi in silenzio, poiché le parole erano già state usate tutte nei testi scritti per le loro canzoni, e immobili, non un movimento se non quelli suggeriti dal vento, finché l’attesa non è terminata ed è rimasto solo il momento di iniziare.

Eccoli dunque colpire con i loro plettri la distorsione intrappolata in quelle corde, eccoli salire a loro volta lungo delle scale dove non avrebbero incontrato nessun altro, in cima alle quali si sarebbero finalmente trovati davvero faccia a faccia a guardarsi negli occhi per quella prima ultima volta e dove forse si sarebbero infine riconosciuti. Non saprò mai se questo è quello che sarebbe successo, perché di lì a pochi attimi quella lunga sfida all’ultima nota tra musicisti è giunta per l’appunto all’ultima delle note disponibili, e per consapevolezza o per puro istinto i due chitarristi lo hanno capito e non hanno avuto altra scelta che cercare di inventarne una nuova, riuscendoci.

Ora, come può certamente capire l’avvento di una nuova nota sarebbe stato più che sufficiente a sconvolgere l’ordine naturale delle cose, ma DUE note mai sentite prima, create contemporaneamente? Il loro apparire nel mondo in quel modo fu sufficiente a creare una sorta di esplosione o squarcio nel tessuto della realtà, dalla quale emerse una… credo fosse una sorta di scala, o almeno è così che la ricordo, o mi piace ricordarla, fatta non di metallo o di corda ma di corde di chitarra, e la scala in questione sembrava portare ad una sorta di, non so, di apparecchio volante di qualche tipo, qualcosa di simile ad un dirigibile forse, e lassù, a fare cenno ai musicisti di raggiungerlo, c’era una creatura non metà uomo e metà musicista come lo sono in tanti ma TUTTO musicista, silenzi compresi. Quasi ipnotizzati, come del resto lo ero anch’io, i musicisti dei due gruppi al completo hanno iniziato a salire quella scala e una volta giunti a bordo quello strano mezzo se ne è andato lasciando che l’apertura dalla quale era giunto si chiudesse alle sue spalle.

Da allora nessuno li ha mai più visti, nemmeno io. A volte, ma solo nei giorni in cui mi sento giù e credo che le cose impossibili non siano davvero possibili penso di aver sognato tutto, che nulla di quanto ho visto sia accaduto davvero, ma per il resto del tempo… si, per il resto del tempo ci credo. Oggi è così, per esempio.”

Poi non dice più nulla, ed il suo lungo racconto sembra essere finito. Lo ringrazio per quanto mi ha detto, cose con le quali farò i conti più tardi forse, e anche per il bicchiere di acqua che mi ha offerto e penso che almeno la storia avrebbe dovuto farmela pagare, ma tant’è. Fatto questo, esco dal locale e vedo che al tavolino non c’è più la coppia di prima, i due anziani se ne sono andati sostituiti da un’altra coppia questa volta di giovani, forse giovanissimi. Sono appena all’inizio della loro storia, appena all’inizio della loro conversazione, eppure sembra già una fine. Lui infatti le sta chiedendo:

“Cara, sei sicura di non aver dimenticato qualcosa a casa?”

“Hm? Scusa caro, non ho capito, non stavo pensando a te. Hai detto qualcosa?”

Lui allora, più triste di quanto pensava sarebbe mai stato, come se avesse capito solo ora che non riuscirà mai più a lasciarla, pensa “ho detto qualcosa?” ma poi le dice:

“No. No, niente.”

Questo è tutto per ora, ti scriverò di nuovo quando sarò riuscito finalmente a comprendere il tutto che si nasconde dietro a quel niente.

Saluti,

(IO).